Universitari sempre più stressati, sopraffatti dallo studio e dagli impegni, non più in grado di guardare con lucidità al proprio percorso di vita. Si può parlare di burnout? Quest’ultima è una sensazione comunemente associata al contesto lavorativo. Il burnout, infatti, è una sindrome riconosciuta come “fenomeno occupazionale” dall’OMS da maggio 2019, ma non rappresenta una condizione medica ed è la stessa Organizzazione mondiale della sanità a ribadire che “si riferisce specificamente a fenomeni nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita”.
A caratterizzare il burnout infatti sono tre dimensioni: sensazioni di esaurimento o spossatezza energetica; aumento della distanza mentale dal proprio lavoro, o sensazioni di negatività o cinismo legate al proprio impiego; ridotta efficacia professionale.
Tuttavia, in particolare dopo la pandemia, il termine si è fatto strada nel linguaggio comune per indicare, più universalmente, una sensazione di esaurimento, di mancanza di forze psico-fisiche, con sintomi legati ad apatia, nervosismo, irrequietezza, demoralizzazione.
Non stupisce quindi che venga utilizzato, a suo modo, anche per il contesto accademico, in particolare quando il peso delle responsabilità e delle aspettative legate agli studi raggiunge livelli insostenibili portando, nei casi peggiori, a condizione di stress patologico.
Ma cosa crea un mix di malessere fisico e psicologico che può incidere sulla qualità dello studio e sul successo accademico?
Tra ambizioni e frustrazioni
Un elemento scatenante, per chi studia all’università, è la pressione accademica. La competizione in alcuni ambiti potrebbe essere molto sentita e porta a voler alzare sempre di più l’asticella per cercare di dimostrare il proprio valore. Non solo nei confronti di professori ma anche della famiglia (che spesso esercita la pressione maggiore) e dei propri coetanei. Si pensi – per esempio- ad ambiti come quello medico, ingegneristico, giuridico: quante volte la società e i media pongono l’accento sui neolaureati che raggiungono risultati record a soli 22 anni? Una dinamica che spinge i giovani a sentirsi costantemente un passo indietro rispetto obiettivi e aspettative. Sono storie sicuramente lodevoli, ma rischiano di creare in tutti gli altri condizioni di inadeguatezza perenne.
L’isolamento sociale è un altro aspetto molto impattante. Se, per studiare, hai dovuto lasciare la tua città o il tuo paese, salutare la tua famiglia e i tuoi cari e trasferirti in un nuovo luogo, il cambiamento può portare a sentimenti di solitudine e isolamento. Un altro fattore da considerare è la mancanza di autostima e cura di se stessi. Chi studia, in alcuni casi, può arrivare a dormire e uscire poco, mangiare male, ovvero a sacrificare il benessere fisico e mentale. Ultimo e fondamentale passaggio è la perdita di interesse nei propri studi. Si parte con le migliori intenzioni e tanto entusiasmo poi, vista la mole di lavoro, non superati alcuni esami, la voglia di studiare declina. Si resta quindi fermi in una sorta di limbo, magari fuori corso e stressati pensando al presente e al futuro.
La durata dei corsi e il tempo passato dietro ai libri contribuiscono altrettanto. Si pensi che il corso più lungo, quello in medicina e chirurgia, dura 6 anni. Sei anni solo di studio, a cui seguono la specializzazione e il tirocinio.
ITS, diversi anche in questo?
Insomma, dopo il liceo, non bisogna sottovalutare le scelte da compiere quando si approccia la formazione terziaria, perché oltre alle dinamiche legate allo studio esistono anche quelle potenzialmente legate al privato.
Scegliere un percorso alternativo, come quello offerto dagli Istituti Tecnici Superiori, dalla durata biennale può essere una soluzione vincente rispetto a un modello, quello universitario, che presenta aspetti sfidanti?
Come abbiamo più volte sottolineato, Università e ITS sono mondi diversi, che assolvono a mission formative totalmente diverse. Gli ITS non nascono come alternativa breve all’università, ma come “percorsi di formazione terziaria non universitaria in risposta alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche”.
Ora è evidente che alcune professioni richiedono e richiederanno sempre la laurea e che l’università, oltre ad essere un percorso di studio, sia anche un’esperienza di vita che come tale è un unicum, fatta dei suoi riti e delle sue regole (alcuni tra l’altro seduttivi in quanto intergenerazionali e interclassisti). Chi sogna di diventare medico, ingegnere, biologo o avvocato, non può far altro che immatricolarsi in un ateneo e cercare di arrivare all’obiettivo. Chi, invece, ambisce a lavorare nell’ambito dell’efficienza energetica, della mobilità sostenibile, delle nuove tecnologie della vita, nel made in Italy o nell’ambito dei beni e delle attività culturali può eventualmente decidere se scegliere un percorso universitario o un percorso ITS, ben consapevole delle diversità di entrambi (gli strumenti di orientamento non mancano).
Pensare di formarsi in solo di due anni, in un programma di studio già strettamente legato al mondo del lavoro, e con una parte di pratica sul campo, può avere i suoi vantaggi se la prospettive di anni di studio, sessioni di esami e eventuali master o specializzazioni non risultano allettanti. Le probabilità di vivere una condizione di burnout diminuiscono? Certamente, in ballo ci sono meno anni di vita dedicati allo studio, un orizzonte più definito dalla durata e dalla modalità duale e il contatto con le aziende sarà costante, un plus pensando al dopo.
Secondo gli ultimi dati i dati del monitoraggio nazionale 2024 sul sistema ITS Academy, elaborati da INDIRE su incarico del Ministero dell’Istruzione e del Merito, l’87% dei diplomati (pari a 6.121) risultano occupati a un anno dal diploma e dispongono di un contratto di lavoro stipulato entro dicembre 2023. Di questi il 93,8% (pari a 5.744) ha trovato un lavoro coerente con il percorso di studi svolto. Il monitoraggio nazionale 2024 prende in esame i 349 percorsi terminati al 31 dicembre 2022, erogati da 98 ITS Academy.
I dati elencati possono rappresentare un elemento di stimolo, così come il metodo caratterizzato da attività didattiche innovative ed esperienziali.
Chi si iscrive a un ITS eviterà – quindi- automaticamente una condizione di stress o di “burnout”? No, non esistono garanzie in tal senso ma sono diverse alcune dinamiche (dalla complessità degli studi alle aspettative sociali) che inevitabilmente rendono più soggetta a stress (non solo fisico) la persona che si iscrive all’università.
Un discorso complesso come lo stress connesso alla formazione non può essere banalizzato ma, quando si sceglie una traiettoria di studio e carriera, sono tante le domande da farsi e anche il tema del benessere fisico e mentale conta e non può essere trascurato.