I grandi temi contemporanei

Salute mentale, come risponde l’università italiana ai bisogni degli studenti

Le richieste di supporto sono aumentate negli ultimi anni, come conferma un'inchiesta a cui hanno risposto importanti atenei. Marco Boscolo, giornalista e curatore dell'indagine, racconta a TuttoITS i risultati e i prossimi step

Giovani, salute mentale e università: negli ultimi anni se ne è parlato sempre di più e non a caso. Una recentissima inchiesta condotta dai giornalisti Federica D’Auria e Marco Boscolo – la cui prima puntata è apparsa su Il Bo Live (la piattaforma comunicativa multimediale dell’Università di Padova, ndr) – conferma che quasi la totalità degli atenei ha registrato un picco di aumenti delle richieste di supporto durante la pandemia.

E “solo in pochi casi (università Roma Tre, università di Brescia e università di Padova) il trend è tornato stabile dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Il resto degli atenei ha segnalato invece un aumento costante delle richieste dalla fine della pandemia ad oggi”.

Cinque anni fa cominciava l’isolamento e lo stravolgimento delle prassi, anche quelle accademiche, ma il ritorno alla normalità ha confermato che il tema del benessere e della salute mentale di chi popola le aule universitarie è ben più ampio: incertezza sul futuro e senso di precarietà sono dinamiche più profonde e strutturali in un mondo dove si trasforma il lavoro e la finalità stessa della formazione, mentre stress da studio eccessivo, competizione e ansia legate alle aspettative sociali e familiari connesse alla laurea non sono certo fenomeni nuovi. Gli atenei provano a fare la loro parte, come conferma l’inchiesta di Boscolo e D’Auria che, al fine di approfondire la questione, hanno contattato tutte le 69 università e gli istituti di istruzione superiore pubblici italiani per raccogliere informazioni sugli interventi di supporto psicologico offerti.

La fotografia emersa non può essere del tutto esaustiva, perché ha risposto il 42% degli atenei interpellati (tra essi, figurano realtà molto importanti, come Università degli studi di Pavia, Università degli studi di Napoli Parthenope, Università Ca’ Foscari di Venezia, università degli studi di Bari Aldo Moro, università degli studi Roma Tre, università degli studi di Siena, ecc).

Come afferma la ricerca, la media degli studenti e delle studentesse che fa richiesta al servizio è pari all’1,95% delle persone iscritte e il “numero di richieste […] varia molto a seconda dei singoli casi, con sostanziali differenze tra le università più grandi e quelle più piccole“. Tuttavia, anche in realtà più piccole, la percentuale tra richieste e iscritti svela un accesso importante, sintomo di un bisogno di confrontarsi per provare a capire cosa non va. Non trattandosi di vera e propria terapia, come esplica l’indagine, siamo più nel campo del  supporto o del counseling psicologico, vitale per una prima presa di coscienza ma anche per una condivisione necessaria. A fare la differenza, anche la mutata attitudine generazionale: come confermano social e ricerche in merito, la Generazione Z non ha paura di chiedere aiuto e di condividere il percorso, è più aperta alla ricerca di una terapia e al dibattito sulla salute mentale. .

L’indagine si arricchirà di nuovi capitoli, anche grazie a un questionario anonimo che mira a “raccogliere voci, esperienze e prospettive direttamente da chi vive l’ambiente accademico” rivolto in particolare a studenti e studentesse, dottorandi e dottorande, assegnisti e assegniste di ricerca“. Il questionario sarà online fino alla fine di marzo. Nelle prossime puntate dell’inchiesta, esperti di salute mentale e di condizione giovanile in Italia commenteranno i risultati emersi dall’indagine.

Per approfondire i temi dell’inchiesta apparsa su Il Bo Live, che può ispirare – a vari livelli- chi si occupa del tema dei servizi agli studenti nell’ambito della formazione tecnologica superiore, TuttoITS ha intervistato Marco Boscolo: giornalista e science writer con la passione per i dati, è anche docente universitario (insegna Comunicazione della Scienza presso il corso Transversal Skills, Laurea Magistrale in Fisica) presso l’Università di Bologna dove si è laureato in filosofia nel 2004.

Boscolo, quali sono i dati più rilevanti tra quelli emersi, pur sapendo che il 58% degli atenei non ha risposto e che alcuni dati non sono uniformi? (alcuni servizi hanno offerto dati sull’anno solare e non su quello accademico, ndr).

La prima cosa che emerge positiva è che tutte le università pubbliche hanno un servizio psicologico attivo o gratuito. Funzionano, magari in maniera in maniera diversa, alcuni offrono quattro incontri, altri ne offrono otto. In alcuni casi è un servizio offerto direttamente dall’Università, dal dipartimento di psicologia ove presente; in altri casi, è un servizio che viene erogato da associazioni di professionisti o realtà private, ma in convenzione e quindi comunque gratuitamente (in altri, l’organizzazione è “mista” cioè co-gestita dall’ateneo e da una realtà esterna, ndr). Di fronte a un problema che è diffuso e tangibile, le università, almeno sulla carta, si sono dotate di un servizio. L’altra cosa positiva è che quasi tutti gli atenei sono in contatto anche con le Asl locali. Nel caso in cui ci si rende conto che non si tratta di un problema solamente di disagio psicologico, ma c’è una patologia che richiede un trattamento farmacologico psichiatrico, c’è già una linea aperta, cosi si spera di intercettare i casi più gravi.

Hanno risposto poco meno della metà, comunque ci sembra un numero molto alto, perché che non erano tenuti a farlo. Segnala il fatto che chi lavora in questo settore almeno ci ha risposto, percepisce la gravità della situazione, del ruolo che occupa.

I dati di per sé sono nudi ma c’è anche il rischio di interpretarli male. Si potrebbe pensare che, se la media degli studenti e delle studentesse che fa richiesta al servizio è pari all’1,95% delle persone iscritte, il problema sia tutto sommato piccolo. Ma poi ovviamente esiste un sommerso.

C’è un grosso discorso da fare in quanto i ragazzi e le ragazze accedono al servizio in maniera volontaria, non è detto che la misura del disagio che abbiamo proposto sia una misura veritiera. I dati si riferiscono a chi ha fatto richiesta. Infatti, per questo motivo, abbiamo lanciato una in questionario online per raccogliere i dati in maniera anonima dagli utilizzatori e vedere se c’è una relazione, cioè quante persone diranno che hanno avuto delle manifestazioni di disagio ma non hanno fatto richiesta al servizio. Poi, c’è chi non fa domanda al servizio dell’università, però è in cura privatamente dal proprio psicologo. Quindi c’è anche tutto quel mondo che è difficile quantificare.

Ho fatto l’università molti anni fa, invece la collega Federica D’Auria che ha lavorato con me, è molto più giovane. Confrontandoci, ci siamo detti che, rispetto a un po’ di anni fa, sembra cambiato il chiedere aiuto o rendere pubblico il disagio psicologico.

La cosa che rimane un po’ problematica, e cercheremo di esplorare ancora meglio nelle prossime puntate è che, come dice anche Giulia Franzoi, ricercatrice al dipartimento di Psicologia dell’università di Torino, raramente i quattro o otto incontri di counseling psicologico sono sufficienti. Servono a identificare quali possano essere le difficoltà, le problematiche, ma si è ben lontani dal parlare di una terapia e dal parlare di un’uscita da un eventuale problematica.

Queste consapevolezze potrebbero portare gli atenei a un approccio più proattivo, a una spinta gentile per invitare gli studenti a rivolgersi al servizio due volte l’anno di default?

Sarebbe bello che ci fosse una spinta maggiore, non solo all’università, ma in generale, che porti le persone a fare un punto, anche se non manifestano sintomi o problematiche. All’interno dell’Università credo ci sarebbe il problema del personale, perché già adesso sono in difficoltà, non sono abbastanza attrezzate in termini di risorse per gestire approfonditamente tutte le richieste che ricevono. Cercano di rispondere a tutte le richieste però a volte ci sono dei tempi, dei ritardi, perché c’è tanta domanda rispetto alla capacità. Il secondo problema è che spingere in maniera intelligente e ben studiata potrebbe creare un’altra aspettativa, un altro carico che deve essere messo nella lista di stress degli stessi studenti.

L’articolo 32 della Costituzione dice che in Italia è garantito il diritto alla salute dell’individuo nell’interesse della persona e della collettività. È bello che ci sia un’Università che prova a prendersene carico, anche con delle armi spuntate, perché quando le persone stanno bene psicologicamente, non solo fisicamente, sta meglio la società. Nella nostra retorica nostalgica da adulti quelli universitari vengono ricordati come gli anni della spensieratezza, gli anni del divertimento, in cui il peso delle responsabilità non è ancora così forte ma poi potremmo scoprirli adombrati da problemi psicologici che il servizio pubblico non è così tanto attrezzato a sostenere, a risolvere. Cosa succede quando uno studente ha finito gli incontri ma non ha risolto i tuoi problemi, ma allo stesso tempo, proprio perché è uno studente, non hai i soldi per andare dallo psicologo? Allora c’è un problema di salute pubblica, di garanzia alla salute che in qualche modo lo Stato italiano non si sta prendendo del tutto in carico.

Avete ottenuto un riscontro dal 42% degli atenei che avete contattato, nell’articolo suggerite che “l’assenza di risposta da parte delle università restanti non debba essere interpretata come indice di scarsa attenzione al tema della salute mentale”.

Alcuni ci hanno detto che stava già lavorando a dei progetti interni. In alcuni casi abbiamo dovuto passare invece attraverso un colloquio, con i responsabili della sicurezza dei dati delle università per assicurarli che non avremmo detto cose terrificanti o sbagliate. A volte abbiamo dovuto convincere alcune persone della bontà del nostro intento. In alcuni casi abbiamo dovuto, come nel caso di Firenze, parlare con l’ufficio relazioni con il pubblico. Se osservo con l’occhio del giornalista duro e puro, mi vien da dire che forse si poteva anche insistere un po’ di più. Ci aspettavamo meno risposte onestamente, quindi ci è sembrato già un risultato.

Non volevamo, invece, che il numero di domande fosse il motivo per dirci di no. Ci siamo focalizzati sulle cose che per noi erano essenziali, che volevamo sapere. Per il questionario, ci siamo fatti aiutare anche da persone che hanno competenze specifiche o colleghi e colleghi che lo hanno già fatto passato, abbiamo capito che costruire un questionario richiede competenze tecniche che non sono semplici come invece appare.

Quali sono le caratteristiche del contesto accademico italiano che incidono sullo stress? Ci sono paesi come gli States dove il costo del percorso universitario, e quindi del debito, è fonte di grandi preoccupazioni, altri dove l’università risente della scarsa libertà nella società circostante. E in Italia?

Ho fatto l’università prima della riforma del 3+2, quindi un’università profondamente diversa da quella di oggi dal punto di vista dell’organizzazione. Quello che vedo, anche dal racconto degli studenti, è un grande focus sulla produttività, sulla performatività, il fatto che sia molto importante laurearsi in tempo, fare tutte le cose previste nei tempi stabiliti. Mi dà l’impressione che l’università da questo punto di vista sia molto più organizzata, apparentemente molto più efficiente. Però questo va bene per probabilmente per una media delle persone, ma non siamo tutti uguali. L’altra cosa è l’incertezza del futuro. Mi sono laureato in filosofia, quindi una facoltà che non aveva neanche lontanamente un’idea di collocamento nel mondo del lavoro. Ma nei primi anni 2000 non c’era la preoccupazione che il futuro potesse essere peggiore del passato o del presente. Oggi gli studenti sentono molto di più l’incertezza per il proprio futuro, sia individuale sia come come società e su questo, forse, noi che stiamo dall’altra parte della cattedra spesso sbagliamo nel sottolineare sempre le difficoltà attuali rispetto al mondo di prima.

E il tema economico?
Anche da noi comincia a essere rilevante il tema economico per andare all’università, cioè le tasse sono importanti. Io vivo a Bologna, città al centro di un dibattito sul problema della casa e del caro affitti. Ed è un argomento che crea preoccupazioni, quando parli con ragazzi che cercano casa c’è uno stress enorme, cosa che io onestamente non ho mai avuto.

Quanto pesa invece il tema dell’ibridizzazione dei contenuti? Un tempo era tutto più definito, oggi si chiede flessibilità a prescindere dalla materia di studio scelta. Anche questo è un fattore che crea ansia o stress?

Sono assolutamente favorevole all’ibridizzazione dei curricula perché ti danno la possibilità di ragionare, di confrontarti, durante il periodo universitario con punti di vista diversi. Poi magari decidi che la tua vita è fare fisica teorica e vorrai fare solo quello. Almeno una volta però l’università ti ha costretto a essere esposto a un punto di vista diverso e questo è molto importante perché mette in prospettiva un sacco di cose. Molto spesso si sente dire da chi è docente, da chi ha un ruolo più senior, che “basterebbe fare le cose fatte meglio, lasciandole fare a chi le sa fare, cioè gli scienziati e i tecnici“. Una tentazione che filosoficamente ha un nome, si chiama tecnocrazia e ha la sua dignità. Però personalmente non credo che sia quella che ci farà diventare un Paese migliore o una società migliore. Sarà stupido e banale da dire, però vediamo cosa succedendo con l’efficientismo di Elon Musk, non mi pare che sia la direzione in cui vorrei andare. Preferirei un mondo diverso.

Un tempo l’università era anche il luogo della condivisione ideologica e politica, ad esempio negli anni 70′, così come primi duemila, prima e dopo il G8. Si parla tantissimo delle cose del mondo di prima che ci stiamo lasciando dietro. Anche questo aspetto sta cambiando?

Sono assolutamente ottimista perché tutti quelli che abbiamo bollato come attivisti ambientali molto spesso sono studenti universitari, sono proprio di quella fascia d’età, tra la fine delle superiori e i primi anni dell’università. Tra il G8 di Genova e il clima di oggi c’è un filo rosso noto molto chiaro. Magari la partecipazione è organizzata in maniera diversa rispetto ai nostri tempi. Magari usano di più gli strumenti digitali anche per per stare insieme, per discutere insieme. Noi ci trovavamo magari al circolo Arci o al centro sociale. Però mi pare che il fermento non sia per nulla cambiato, vedo un passaggio di testimone quasi più evidente di quanto non possa sembrare a molti interlocutori, osservatori, colleghi che parlano dei giovani di oggi. Mi sembra che non colgano questa continuità, che invece è molto evidente.

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Maria Rosaria Iovinella
Giornalista professionista, per TuttoITS svolgo il ruolo di contributor e senior editor del sito.
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