Dopo l’approvazione definitiva da parte del Senato – e in attesa di un passaggio finale in terza lettura alla Camera che pare poco più di una formalità – la riforma degli ITS ha sostanzialmente concluso il proprio lungo iter parlamentare. Una riforma ritenuta necessaria, con pochissime voci fuori dal coro, un’origine parlamentare più che governativa e una straordinaria coesione politica in quasi tutto l’arco di Camera e Senato, che dagli addetti ai lavori era data per cosa fatta già nell’autunno 2021 ma che ha richiesto altre tre stagioni prima di arrivare a una luce verde definitiva.
Ma se da un lato l’approvazione parlamentare segna il goal politico e il traguardo per chi la riforma l’ha voluta e proposta, dall’altro come per ogni riforma strutturale – e ancora di più in un mondo complesso quale quello degli ITS – gran parte della partita si giocherà nel prosieguo, tra decreti attuativi ed effettiva entrata in vigore con l’adozione delle novità.
Non basta certo cambiare nome – da Istituti Tecnici Superiori a Istituti Tecnologici Superiori (ITS Academy) – elargire fondi e mettere nero su bianco un ampliamento delle aree tecnologiche cui afferiscono gli istituti per indurre una reale trasformazione delle dinamiche di formazione, di relazione con il mondo del lavoro e con il tessuto imprenditoriale, e soprattutto quel passaggio culturale che dentro e (soprattutto) fuori dal mondo ITS dovrà avvenire per riconoscere alla formazione tecnica post diploma quella dignità che in Paesi come Germania, Francia e Svizzera è già ben radicata, ma che in Italia si intravede appena. E proprio questi tre paesi, si potrebbe dire, hanno fatto da ispirazione per la riforma nostrana, che infatti cerca di trarre le migliori peculiarità da ciascuna realtà nazionale per ricavarne una sintesi virtuosa.
Non si può negare che i segnali in arrivo siano positivi. Ministri come Patrizio Bianchi e Mariastella Gelmini che in prima persona si prodigano per dare voce e spazio agli ITS. Nuovi istituti nascenti. Corsi che si moltiplicano. Dichiarazioni entusiaste da parte di amministratori locali e imprenditori. Dati di occupazione e gradimento che si mantengono altissimi. E persino un’attenzione mediatica che forse gli ITS non hanno mai potuto vantare nella loro storia. Ma questo non basta: come abbiamo scritto qualche settimana fa all’atto di nascita di TuttoITS, 4 italiani su 5 nemmeno sanno che cosa siano gli ITS, molti studenti sono all’oscuro che esista la possibilità di una formazione biennale post diploma che indirizza verso specifiche professionalità tecnologiche, e tra chi conosce gli ITS spesso resta quel vecchio pregiudizio che vorrebbe la formazione tecnica considerata di rango inferiore, a prescindere dalle reali opportunità di occupazione e di carriera, dai livelli salariali medi e dal valore effettivo che può apportare al sistema Paese.
L’obiettivo di lungo corso della riforma degli ITS – così come di TuttoITS, nel suo piccolo – non è certo portare tutti gli studenti e le studentesse a iscriversi a un corso ITS, ma fare sì che questo sistema di formazione sia sufficientemente solido, conosciuto e ottimizzato per essere utile ai futuri lavoratori, proficuo per le aziende e virtuoso per la società italiana, tanto da un punto di vista occupazionale quanto produttivo e di tenuta sociale. E affinché questo accada non basta – ahinoi – un testo legislativo ben scritto e una pioggia di finanziamenti.
Soldi e inquadramenti normativi aiutano, è lapalissiano, ma restano alcuni problemi di fondo che dovranno essere affrontati e risolti per concretizzare l’auspicato cambio di passo. Tanto per elencarne alcuni, in una lista non certo esaustiva: risolvere il complicato rapporto tra ITS e università, magari nella direzione della collaborazione e della complementarietà più che verso una insensata e mutualmente dannosa competizione, intercettare efficacemente i neet (chi non studia né ha un’occupazione) per indirizzarli verso il mondo del lavoro tramite una formazione professionalizzante, favorire la creazione di ITS anche in aree dove finora è mancata la spinta imprenditoriale o la volontà politica per farlo, destrutturare il già citato pregiudizio culturale sul valore della formazione tecnica, eliminare l’altro antico retaggio secondo cui qualunque tipo di formazione dev’essere svincolata dai bisogni concreti delle imprese, costruire un’immagine di unitarietà e comunione di intenti (a cominciare dalla nomenclatura) tra gli ITS già esistenti o in via di formazione, mantenere un sano equilibrio tra ITS e aziende del territorio, scongiurando per esempio che un ITS diventi espressione di una singola impresa e perda la propria identità come realtà formativa specializzata e autonoma, fare chiarezza e garantire trasparenza riguardo a una serie di cavilli normativi e burocratici la cui complessità ha fino a ora determinato disallineamenti tra gli ITS e qualche piccola brutta sorpresa, garantire delle modalità di supporto agli ITS meno virtuosi anziché limitarsi a premiare i migliori.
Non c’è dubbio – o almeno sembra non averne la stragrande maggioranza dei politici, degli ITS, delle aziende e delle amministrazioni locali – che la riforma ITS sia un passo grande e compiuto nella giusta direzione. Ma non c’è dubbio pure che la riforma somigli più a una linea di partenza che a una del traguardo per una trasformazione e un potenziamento degli ITS non tanto e non solo da un punto di vista infrastrutturale, economico e amministrativo, ma soprattutto culturale e sociale.
Il valore profondo della riforma sta nel riconoscere l’importanza e la necessità di sviluppare competenze tecnologiche specifiche su transizione ecologica e digitale, sulla robotica e sul made in Italy, nel rendere il nostro sistema di formazione tecnica post diploma una delle eccellenze del panorama europeo e globale, nell’offrire a decine (o centinaia) di migliaia di giovani ogni anno la possibilità di sviluppare una carriera e un percorso di vita strutturati e sereni, nel dare all’intero ecosistema formativo italiano una struttura al passo con i tempi e degna delle necessità reali del Ventunesimo secolo, nel rispondere a un bisogno sociale fondante come quello di fare combaciare il più possibile la domanda e l’offerta di lavoro. Come ogni trasformazione di questo genere, anche questa richiederà tempo, costanza, determinazione e pazienza. Ecco perché il lavoro che ci aspetta è tanto, non nei prossimi mesi ma nei prossimi anni.