Scommessa vincente sì, vinta ancora no. La differenza per gli ITS italiani è tutta nei tempi dei participi, almeno a giudicare dal rapporto recentemente presentato dalla Fondazione Agnelli e che prende il titolo di “ITS Academy: una scommessa vincente? L’istruzione terziaria professionalizzante in Italia e in Europa”, pubblicato da Milano University Press. Il rapporto analizza la via italiana all’istruzione terziaria professionalizzante e, al contempo, indaga i principali modelli europei (in Francia, Svizzera, Germania e Spagna), anche al fine di spiegare perché nel nostro la popolazione degli studenti in questo segmento abbia un peso decisamente trascurabile (poco più dell’1% sul totale dell’istruzione terziaria professionalizzante, afferma il report).
Il rapporto non nega che esistano, in ambito italiano, “alcuni casi di estrema positività, veri e propri gioiellini” – in particolare nell’ambito degli istituti tecnologici superiori trainati dalle imprese nelle aree più dinamiche del Paese – ma afferma che il rischio è proprio quello di viziare il dibattito pubblico rispetto ad alcuni aspetti di insufficienza e criticità più strutturali del mondo ITS italiano.
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Secondo il report, infatti, il sistema dell’istruzione terziaria professionalizzante non dialoga abbastanza con il sistema secondario superiore e nemmeno con il mondo accademico, un isolamento di cui paga lo scotto, in primis, in termini di riconoscibilità presso il suo stesso target: gli studenti. Il report indica quattro assi di azione al fine di rendere il sistema degli ITS Academy più ampio: più accuratezza sulla definizione dei profili in uscita, più legami con altri soggetti, meno isolamento e più forza istituzionale e gestionale. Non manca un richiamo a “rendere più certi e permanenti i meccanismi di finanziamento consentendo agli ITS Academy di contare su risorse stabili nel corso del tempo” in quanto “l’attuale finanziamento statale (circa 50 milioni, a cui va aggiunto un limitato finanziamento regionale) non sembra adeguato a una crescita significativa dei numeri degli ITS Academy“.
Per comprendere meglio le critiche mosse, e gli scopi del rapporto, ne abbiamo parlato con Matteo Turri, professore ordinario del Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi dell’università degli studi di Milano, curatore del rapporto che ha realizzato guidando un gruppo di ricercatori italiani ed europei.
Matteo Turri, la ricerca analizza anomalie, differenze e criticità degli ITS Academy rispetto ad altre esperienze in diversi paesi europei. Alcune peculiarità degli ITS ricalcano quelle nazionali: il Nord che corre più del Sud, il tema dimensionale che ricorda quello delle pmi, che a volte sono competitive ma piccole. Gli ITS sono lo specchio dell’Italia?
“Da un certo punto di vista, sì. Il rapporto si apre con un quesito: “ITS Academy, una scommessa vincente“? Certamente sì, ne abbiamo talmente bisogno che occorre crederci, investirci, occorre superare alcuni limiti che – in questo momento – non consentono ancora agli ITS, pur essendo una realtà molto buona, di raggiungere quegli obiettivi che ambiamo a fargli raggiungere. C’è davvero uno spazio di crescita molto grande per gli ITS, perché questo spazio possa essere occupato non bisogna cadere nei fallimenti che hanno caratterizzato altre esperienze dal 1963 a oggi. Abbiamo la grande convinzione che gli ITS e l’istruzione terziaria professionalizzante debbano crescere, ma superando alcuni limiti affinché questo possa avvenire”.
Il rapporto presenta un confronto con altri paesi europei che hanno, in questo segmento, condizioni di partenza totalmente diverse. Ha senso un paragone con contesti che hanno decenni di vantaggio?
“In realtà la risposta è complessa. La Spagna ha iniziato nel 2006, il confronto con la Spagna lo abbiamo inserito proprio perché è una realtà più recente ma ha un peso importante. Quindi, in quel caso non possiamo invocare differenze di date di origine. Anche in Italia, negli anni Sessanta e Settanta – e poi con il provvedimento delle scuole dirette a fini speciali nel 1982, o ancora con i diplomi biennali o triennali universitari negli anni Novanta – c’era consapevolezza di questa necessità, solo che non siamo riusciti a cogliere questa opportunità. L’abbiamo colta più avanti e rilanciata con la legge di riforma del 2022. Abbiamo l’occasione di recuperare il tempo perso, con la consapevolezza che non siamo più in una situazione di espansione, ma di inverno demografico, e non abbiamo una canalizzazione forte della scuola secondaria superiore come in Germania e in Svizzera. Il messaggio che vuole dare il rapporto è che occorre essere consapevoli dello stato in cui siamo e sulla base di questo mettere in atto provvedimenti e politiche adeguate al contesto e che consentano di andare nella direzione di un’espansione”.
Una delle sottolineature dello studio è che gli altri paesi godono di più livelli di formazione terziaria professionalizzante. Questo treno, per l’Italia, è perso? Correggere adesso questo aspetto non sarebbe un controsenso rispetto al fatto che il sistema, come scrivete, è in contrazione?
“Questo è un punto importante, quando si ragiona di politiche pubbliche non esistono ricette in assoluto giuste o sbagliate. Esistono ricette portate avanti con coerenza e adatte al contesto in cui vengono applicate. Sicuramente noi siamo in una situazione di ritardo, quindi potrebbe essere probabilmente saggio non moltiplicare le linee, quindi ancora una volta un modello spagnolo rispetto a uno francese o tedesco, ma dobbiamo porci in modo importante l’esigenza di raccogliere e essere consapevoli delle caratteristiche di questi modelli. Il tema che viene stressato molto è il rapporto della scuola secondaria superiore. Ben venga un modello a un solo canale, ma senza fare confusione. In Italia molto spesso associamo gli ITS alle Fachhochschule, ma questo paragone è improprio, in quanto, come le Sup (Scuole universitarie professionali svizzere, ndr) sono università di scienze applicate. Pensiamo alla Svizzera, il caso più vicino agli ITS sono le scuole specializzate superiori (SSS) o in Francia le sezioni tecniche superiori (STS, Sections de Techniciens Supérieurs). Il fatto che ci siano più filoni ci dice che è un ambito ampio, benissimo rispondere con un’istituzione unica, ma tenendo conto di questa complessità, anche di questa ricchezza di possibili funzioni, e quindi ragioniamo maggiormente in termini di sinergia con gli attori esistenti. Non giudichiamo positivamente la tendenza all’isolamento (degli ITS, ndr), il sistema per rafforzarsi deve avere una sua identità ma deve dialogare con i soggetti già esistenti, o rischia di non riuscire a raggiungere dimensioni atte agli scopi che ci auguriamo che possa raggiungere”.
Nel rapporto si sottolinea che gli ITS non dialogano molto con le università, ma entrambi dovrebbero anche capire i rispettivi vantaggi nel farlo. In un prossimo futuro, un’università più votata alla professionalizzazione dei percorsi, potrebbe rappresentare un elemento di antagonismo per il mondo ITS?
“Questa è la grande preoccupazione da pare di tutti, sia da parte degli ITS sia da parte delle università. Tutti pensano a un tema di competizione, concorrenza, io invece proprio non lo vedo. Vedo lo spazio per molte sinergie, per collaborazioni. Abbiamo tanti studenti che non ottengono un titolo di istruzione terziaria, sono numeri molto significativi, c’è spazio per tutti. Bisogna rompere questo modo di guardare l’istruzione terziaria dove si pensa che rapportarsi agli ITS possa essere in contrapposizione con l’università. Anche il rapporto vede che nei sistemi dove questo è avvenuto, le passerelle tra il mondo accademico e quello dell’istruzione professionalizzante sono molto marcate. Ci sono molto più gli spazi per cooperare, lavorare insieme, per costruire percorsi che si possono parlare. Pensiamo alla dispersione universitaria, tanti studenti che non si iscrivono e o non terminano l’università. C’è un filone di pensiero che porta alla diffidenza tra tutti gli attori ma a me sembra, ancora una volta un modo di guardare poco ispirato, poco lungimirante. Le dimensione degli altri paesi ci dicono che se il sistema cresce, ci sono spazi importanti”.
Lei ha citato il tema della dispersione universitaria, alcuni potrebbero essere assorbiti dagli ITS. Abbiamo poi poche donne che frequentano gli ITS nel nostro paese, come sottolinea il report, e un sistema, quello italiano, che non permette di iscriversi agli ITS in mancanza di un diploma. Quali sono i target con cui il sistema non sta parlando, quali sono quelli che vanno recuperati?
“Su questo possiamo andare a lavorare. Probabilmente è anche un po’ legato al sistema industriale: abbiamo negli altri paesi europei molti sistemi in cui l’istruzione terziaria professionalizzante la si fa mentre si lavora. Ma è difficile che una persona adulta possa staccarsi per un periodo prolungato e fare un investimento lungo se non riesce a essere compatibile con l’attività lavorativa. Ma anche sui 19enni abbiamo tante possibilità di crescere. Abbiamo un numero di studenti che finite le superiori non proseguono né all’università né agli ITS, se poi ci aggiungiamo gli studenti che non concludono l’università, abbiamo un ambito molto forte a cui rivolgerci. C’è tutto anche un tema di miglior definizione dei profili di uscita: ci anche molti ambiti in cui l’insegnamento terziario professionalizzante potrebbe trovare maggior spazio. Lo abbiamo legato molto al concetto di rivoluzione tecnologica, di tecnologia ma ci sono altri contesti, come quelli legati alla gestione dei servizi, dell’economia, della cura, dei servizi alla persona, in cui – forse – potrebbe esserci spazio per allargare lo spettro degli ambiti di intervento degli ITS”.
C’è anche un tema di branding? Presidi e direttori lamentano la confusione, sin dal nome, con gli Itis. Possibile che sia il brand stesso a non raggiungere il target?
“Secondo me il tema è più profondo. Penso che stiamo sfruttando ancora in modo limitato le grandi potenzialità della scuola. Il caso spagnolo testimonia questo, il canale ha avuto una crescita molto forte perché è stato legato alla scuola secondaria superiore (come afferma il report, “i Cfgs (cicli formativi di grado superiore, ndr) sono erogati prevalentemente da istituti e centri di formazione che offrono percorsi sia di istruzione secondaria obbligatoria che di istruzione secondaria post-obbligatoria. Ciò facilita i rapporti […] in termini sia di orientamento e accompagnamento del processo decisionale che di continuità, ndr). Le scuole hanno un potenziale enorme in termini di orientamento: bisogna riuscire a a legare maggiormente l’ITS al mondo della scuola, come nel rapporto viene detto chiaramente, pur preservandone l’autonomia, la flessibilità, la presenza di un corpo docente legato all’impresa, con tutte le specificità. Il tema dell’inverno demografico ci porta ad avere potenzialmente scuole sempre meno sature di studenti, dunque abbiamo un’occasione formidabile di coinvolgerle maggiormente. In molti casi abbiamo visto un legame molto presente, in altri è debole. Le scuole hanno gli studenti e lì si gioca la partita dell’orientamento”.
Quali sono gli aspetti della riforma che intercettano i problemi reali degli ITS e quali sono i problemi che la riforma, secondo voi, non intercetta abbastanza?
“Due sono i temi che mi lasciano perplesso: il primo è come è stata costruita la riforma, è una grande legge delega che per entrare a regime ha bisogno di una serie di decreti attuativi, è come abbozzata e poi deve essere messa a terra. Una riforma in parte sospesa. Se gli ITS vogliono crescere devono avere maggiori rapporti con le scuole: questo è il punto centrale. Un altro elemento è avere investimenti permanenti rilevanti, per cui finita la parentesi positiva del Pnrr mi risulta che il fondo per il funzionamento degli ITS abbia ancora ancora dimensioni trascurabili e fatica a essere compatibile con un sistema che vuole essere con l’università l’altra gamba dell’istruzione terziaria a livello nazionale. Ci vuole un investimento differente”.
Nel rapporto sottolineate anche temi di tipo più gestionale, come l’assenza di faculty permanenti o di un apparato amministrativo dedicato, in alcuni casi.
“Accanto alla permeabilità con il mondo del lavoro, che è un punto di forza molto stressato, occorre che gli ITS si dotino di una infrastruttura, di personale, sia lato amministrazione sia docente che consenta di dare continuità. Nelle interviste è emerso che gli ITS fanno fatica a comunicare in anticipo l’offerta formativa, a dare garanzia rispetto al fatto che gli studenti potranno frequentare il percorso. In molte università si selezionano gli studenti sin dal quarto anno di scuola superiore, a medicina il test si può fare fin dal penultimo anno. Quindi uno studente che vuole fare medicina si confronta in modo forte con quella vocazione. Ci sono, appunto, procedure consolidate. È importante che anche il sistema ITS si istituzionalizzi, perché non posso ridurmi a settembre dopo la maturità a confrontarmi sul fatto che mi iscriva o meno. Rischia di essere una scelta residuale, bisogna istituzionalizzare maggiormente gli ITS“.
Il rapporto è stato molto discusso, ne hanno parlato i maggiori quotidiani, alcuni sottolineando la critica alla riforma, altri concentrandosi su altri aspetti. Come valuta la ricezione del rapporto?
“L’ambizione era dare un contributo, in questo senso abbiamo tenuto uno standard tipico di un rapporto scientifico condotto da me con alcuni collaboratori, avvalendoci anche di esperti stranieri. Abbiamo fatto un rapporto che mette in evidenza punti di forza e di debolezza, un rapporto che non si sottrae a elementi di critica ma nasce da due convinzioni. Questo Paese ha bisogno di una forte istruzione terziaria professionalizzante, se si leggono le cose che ho scritto negli ultimi quindici anni, anche parlando di università, l’ho sempre sostenuto in modo chiaro. Che ci voglia un settore terziario professionalizzante è una delle mie convinzioni, la seconda cosa di cui sono convinto è che quella degli ITS sia una scommessa vincente a patto che escano dal mito di Narciso e prendano atto che devono confrontarsi, uscire dalla logica del “piccolo ma bello“, pensare più in grande e confrontarsi maggiormente con la scuola, anche perché in fondo è lo stesso ministero, quello dell’Istruzione. D’altronde la convinzione l’abbiamo ricavata dai casi europei, guardare all’estero ci può indicare strade per crescere”.
Nell’ecosistema ITS ci sono anche le zavorre, quelli che rallentano il sistema? Gli ITS autotrainanti, ad esempio? (il rapporto definisce tali quelli che non sono spinti dall’industria né dalla scuola superiore di secondo grado, “che si confrontano con imprese di piccole e medie dimensioni, talvolta micro e a conduzione familiare, con sbocchi occupazionali polverizzati e una strutturale difficoltà a sostenere percorsi di formazione di lungo periodo o a pianificare a lungo termine i fabbisogni di risorse umane in termini di competenze)
“No, quelli che si autotrainano sono realtà molto buone, che sono in ambiti un po’ meno dinamici ma non sono meno buone. Credo che il nemico degli ITS sia questa visione del “piccolo ma bello”, fare politiche difensive di situazioni contingenti anche positive ma che non consentono di decollare. Invece io credo che gli ITS devono andare verso il mare aperto, navigare: certo, per navigare in mare aperto hanno bisogno di attrezzarsi e istituzionalizzarsi, dotarsi di strutture per reggere il mare aperto, questo è il ragionamento che c’è sotto al rapporto”.