I giovani italiani vivono una condizione di grande vulnerabilità, dovuta specialmente alle difficoltà del percorso di inserimento lavorativo dopo gli studi. La pandemia ha acuito la situazione, incrementando le proporzioni del disagio giovanile, le cui cause però precedono di gran lunga l’emergenza sanitaria. Fra queste, ricopre un peso importante l’incompatibilità delle competenze richieste dal mercato e quelle acquisite dai giovani nei percorsi educativi. Si tratta del cosiddetto skill mismatch, che contribuisce considerevolmente ad aumentare l’incertezza verso il futuro. Questo fenomeno, infatti, ostacola le possibilità di conquistare non solo una stabilità economica, ma anche quella di vivere una carriera lavorativa appagante.
Formazione e mercato del lavoro: due mondi paralleli
Lo skill mismatch descrive lo scollamento tra domanda e offerta di competenze nel mercato, e causa una incapacità di rintracciare gli specialisti di cui si ha effettivamente bisogno. Secondo i dati Eurostat 2022, l’Italia è il paese Ocse più colpito da questa discrepanza, che riguarda specialmente i giovani neodiplomati e neolaureati.
Infatti, l’Istat informa che l’Italia è collocata al di sotto della media europea relativamente all’occupazione e all’istruzione. Il tasso di disoccupazione giovanile è superiore di 22,8 punti rispetto agli altri paesi europei, e ad oggi i giovani disoccupati sono pari al 23.7%. Per i laureati tra i 30 e 34 anni inserirsi nel mondo del lavoro è difficilissimo. In molti casi, significa accettare posizioni lavorative che richiedono competenze inferiori rispetto a quelle acquisite durante l’università. I dati Eurostat sottolineano che quattro laureati su dieci non riescono ad avere un lavoro entro i 36 mesi dal completamento del ciclo di studi. Insomma, inserirsi nel mercato del lavoro in Italia è un incubo, anche quando si possiedono titoli universitari e post-universitari.
Dunque i giovani vogliono essere impiegati, ma non hanno le competenze necessarie a inserirsi efficacemente nel mercato italiano.
Così, il capitale umano nel sistema produttivo italiano viene svalutato e il numero di neet (i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano) aumenta. In Italia i neet sono oltre due milioni, quindi al 22%, rispetto ad una media europea del 12,5%.
Cosa manca ai giovani che invece serve al mercato?
Come osservato dall’Istat, le competenze richieste sono quelle più professionalizzanti, emarginate rispetto alle altre anche a causa dell’annosa contrapposizione tra discipline umanistiche e discipline tecniche.
In La Scienza negata. Un caso italiano, Enrico Bellone ricorda lo scontro tra Federigo Enriques e i filosofi Giovanni Gentile e Benedetto Croce, durante i primi del Novecento. Proprio Croce ha affermato che le discipline storico-filosofiche fossero adatte agli “intelletti profondi”, mentre quelle tecnico-scientifiche appannaggio degli “intelletti minuti”.
Tale organizzazione del sapere si è sedimentata in una gerarchia culturale che vive ancora oggi. Il vertice della piramide è rappresentato dal liceo classico, mentre gli stadi inferiori dalle discipline tecniche che forniscono competenze immediatamente spendibili nel mondo del lavoro.
Questa organizzazione del sapere evidenzia le radici del pregiudizio secondo cui gli ITS sarebbero i cugini poveri dell’università, a causa del quale immaginare una coesistenza fra le due istituzioni diventa difficile. Allo stesso tempo è un bias che legittima lo scollamento tra cittadino e lavoratore, ostacolando la genesi di una base economica solida alla quale affidarsi.
La situazione è aggravata da una evidente confusione normativa che non esplicita le differenze e le convergenze tra le due istituzioni. Così, si perpetua l’esclusione degli ITS e della formazione che propongono.
Coesistenza e collaborazione per la crescita
Esistono delle differenze fra gli ITS e l’università: negare significherebbe non riconoscere gli specifici vantaggi che propongono e i grandi risultati in termini sociali, culturali ed economici che deriverebbero da una loro collaborazione. Grazie al radicamento nel territorio e alla capacità di connettere domanda e offerta (testimoni i livelli di occupazione altissimi al termine degli studi) gli ITS rappresentano una risorsa enorme che non può essere sottovalutata né ignorata. Inoltre, nulla vieta a un neolaureato di implementare le proprie competenze grazie a un percorso altamente professionalizzante come quello offerto da un Istituto Tecnologico Superiore.
Non si tratta di un aut-aut, e quindi non è necessario prendere posizione a favore della formazione universitaria o di quella tecnica superiore. Piuttosto, si può immaginare il riconoscimento delle rispettive sfere di competenza a cui dovrebbe seguire una rispettosa coesistenza, che può contemplare anche un’utile collaborazione.
Per costruire un legame di questo genere è necessario anzitutto riflettere sulla dignità negata alla formazione professionalizzante e sulla sua intersezione con i reali bisogni del mercato. Innovazione e crescita non possono prescindere da questo riconoscimento.
Infatti, un paese che non dota i cittadini delle abilità effettivamente richieste dal proprio mercato è destinato a sprecare una insostenibile quantità di risorse, fra cui il capitale umano, che è il più prezioso.