Great resignation e quiet quitting sono da mesi al centro della discussione: addetti ai lavori e persone comuni si interrogano sulle dinamiche che spingono molti lavoratori a lasciare il proprio impiego, dimettendosi volontariamente (resignation). C’è chi invece resta al lavoro ma con un’attitudine diversa: meno stress, meno ambizioni, meno sensi di colpa nel dire no all’ennesima richiesta dell’ultimo minuto (quiet quitting).
Entrambi i fenomeni vengono spessi connessi alla pandemia, che avrebbe spinto i lavoratori, in particolare i più giovani, a farsi qualche domanda, rimettendo in discussione i capisaldi che hanno dominato per decenni la vita in azienda o in ufficio.
Fenomeni complessi
Tuttavia, le cause, in particolare quelle alla base della great resignation, sono molto complesse, sfaccettate.
Il fenomeno delle dimissioni di massa viene spesso narrato in chiave emotiva: le persone si ribellano alla routine e decidono di cambiare vita, anche a costo di lasciare il posto fisso. Questa tipologia di narrazione, tuttavia, non spiega tassi elevati di abbandono come quelli registrati negli Usa nel 2021. Un’approfondita analisi, sul Monthly Labor Review (organo informativo del Bureau of Labor Statistics, ndr) conferma la difficoltà di spiegare non tanto gli alti tassi di job quitting ma la velocità del fenomeno (non così prevedibile). Nella gamma dei motivi possono rientrare al contempo l’accresciuta ammissibilità ai sussidi di disoccupazione, il desiderio dei lavoratori di proteggersi dal Covid ma anche un rimbalzo dell’economia, in quanto i tassi di abbandono possono aumentare nelle fasi espansive, perché i lavoratori sanno di poter trovare un impiego migliore e quindi scommettono sul cambiamento.
I lavoratori lasciano per molteplici motivi, riconducibili alle 5 R, secondo quanto scrivono gli studiosi Joseph Fuller e William Kerr in un articolo sull’Harvard Business Review: retirement (pensione), relocation (trasferimento), reconsideration (riesame), reshuffling (rimescolamento) e reclutance (riluttanza).
C’è chi lascia un po’ prima della pensione e chi si dimette perché ha maturato una riluttanza al lavoro in presenza e dice addio all’azienda che non propone, ad esempio, opzioni ibride. Occhio anche al vero grande tema, quello salariale che produce rimescolamento, appunto, e upgrade. In questo caso, il fenomeno della great resignation può essere visto, anche e soprattutto, come un big switch. Come scrive ad esempio The Atlantic, le grandi dimissioni diventano, in alcuni casi, “un periodo dinamico di “free agency” per i lavoratori a basso reddito che cambiano lavoro per fare più soldi”.
Insomma, ci si dimette per poi andare a lavorare altrove, ricalibrando le aspettative su lavoro e stipendio.
E in Italia?
Nel novembre 2021, una nota congiunta del Ministero del Lavoro e della Banca d’Italia, confermava che “nel corso del 2021 le dimissioni sono gradualmente aumentate superando, nella seconda metà dell’anno, i livelli registrati nel 2020”.
L’analisi indica che nei primi dieci mesi del 2021 sono state rilevate 777mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40 mila in più rispetto al 2019, e il 90% dell’incremento è da ascrivere all’industria che ha visto 36mila dimissioni in più.
Complessivamente la dinamica delle dimissioni appare, però, strettamente associata a quella della domanda di lavoro a tempo indeterminato, “anche perché concentrata nei settori e nelle aree che dalla primavera del 2021 hanno maggiormente beneficiato della ripresa delle attivazioni di nuove posizioni di lavoro permanente”. Il lavoro si lascia per poi lavorare ancora, meglio se più stabilmente; parte del fenomeno rientra quindi nell’ambito delle transizioni da un lavoro all’altro.
Secondo il quinto rapporto Censis-Eudaimon, tra i lavoratori italiani il pragmatismo ha prevalso, spingendo molti a non tentare azzardi, quindi a non dimettersi. Ma una “latente, sommersa ma intensa” insoddisfazione verso il proprio lavoro esiste e tra i lavoratori, nell’82% dei casi, prevale l’idea di meritare di più. Inoltre, è anche diffusa l’idea secondo cui il lavoro non dia “il riconoscimento necessario per generare identità e appartenenza”. Sono ottime ragioni, in potenza, per lasciare una posizione e sondare cosa c’è fuori.
Ma non è il solo dato interessante che emerge: secondo l’indagine 9 lavoratori su 10 vogliono incrementi retributivi; l’86% più servizi di welfare; il 75% più informazione e supporti per affrontare specifici bisogni sociali. Sono indicazioni interessanti che possono quindi farci capire cosa i lavoratori mettono al primo posto nelle relazioni con l’azienda (e quindi, cosa potrebbe potenzialmente spingerli a lasciare per dirigersi altrove).
Da non sottovalutare, per chi non si dimette e resta al suo posto, il quiet quitting: in genere equivale a un rallentamento, a un modo diverso di vedere l’impegno lavorativo senza però dire addio alla propria mansione. Una definizione univoca forse non esiste, è questione di attitudine. Per praticare il quiet quitting bisogna avere consapevolezza, sapere dove fermarsi, quando dire no, stabilire dei limiti al volume di lavoro che si accetta. Non manca anche, in questo approccio, qualche elemento di lotta e contestazione al sistema: il lavoratore porta un preciso aggiunto valore in azienda, non è un ingranaggio senz’anima. E ha il diritto di farlo capire, anche con un atteggiamento più meditato e slow.