Nella nostra storia

La formazione tecnica in Italia nel secondo dopoguerra

L'espansione economica del secondo dopoguerra fu decisiva per le prime leggi sulla formazione tecnica, che decenni dopo avrebbero aperto la strada agli ITS

Per capire dove siamo oggi con il mondo degli Istituti Tecnici Superiori, può essere utile fare un piccolo passo indietro, fino alle origini della nostra Costituzione. Anche se oggi il contesto del mondo del lavoro ha differenze importanti rispetto ad allora, a cui le normative hanno via via cercato di adattarsi, è già in quegli anni che vengono poste le basi per i percorsi di formazione tecnica e professionale del nostro paese.

In Italia la formazione tecnica che nacque nel secondo dopoguerra fu sostenuta con l’obiettivo di offrire una risposta al crescente problema dell’occupazione. La neonata Repubblica italiana, infatti, fu in grado di supportare la ricostruzione grazie anche all’abbondante numero di persone in età lavorativa. Una forza lavoro che, tuttavia, non disponeva di una adeguata scolarizzazione.

Precari livelli di formazione mal si sposavano con la fase economica espansiva allora in corso, provocando una vera e propria emergenza occupazionale. I giovani rappresentavano una massa superiore alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro di quell’epoca, e con il periodo di scuola dell’obbligo che terminava l’ultimo anno delle elementari, la qualificazione professionale diventava una rarità.

La cura della formazione in Costituzione

La questione divenne prioritaria per l’Assemblea Costituente, come dimostra questo passaggio dell’articolo 35 della Costituzione: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e lelevazione professionale dei lavoratori”.

Una garanzia a cui farà eco la legge n. 264 del 29/4/1949, Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati, predisposta dall’allora ministro del Lavoro e della previdenza sociale, Amintore Fanfani. Il testo ufficializzerà infatti la costituzione di una commissione centrale per l’avviamento al lavoro e per l’assistenza dei disoccupati al ministero del Lavoro e della previdenza sociale, oltre a “esprimere pareri sulle richieste di istituzione di corsi per disoccupati e di quelli di riqualificazione aziendale; sulle richieste di istituzione dei cantieri- scuola”.

Nel 1951, la legge fu integrata da un nuovo testo che estese a tutti, e non più solo agli adulti fuori o a rischio di uscita dal processo produttivo, l’addestramento professionale, gettando le basi per lo sviluppo della formazione professionale.

La legge sull’apprendistato

Su questo primo impianto giuridico fu sviluppata la successiva normativa sull’apprendistato. La legge n. 25/1955 perseguiva infatti due obiettivi: incrementare l’occupazione giovanile abbassando il costo di impiego per i datori di lavoro e favorire la formazione professionale dei giovani. Quest’ultimo traguardo si sarebbe dovuto raggiungere con la formazione all’interno dell’azienda, sotto la guida del datore di lavoro, oppure di operai specializzati. In questa finestra temporale, l’apprendista avrebbe beneficiato di un percorso di lavoro abbinato a periodi di insegnamento obbligatori e gratuiti. L’obiettivo era far sì che la risorsa, al termine dell’apprendistato, avesse acquisito le nozioni necessarie per una piena capacità professionale

La riforma, nei primi quattro anni di applicazione, mostrò un costante effetto sul piano delle assunzioni. Fulvio Ghergo riporta nella “Storia della formazione professionale in Italia” come dai 355.300 contratti avviati nel 1956 sotto la forma dell’apprendistato, si raggiunsero le 627.500 unità registrate nel 1959, con un ulteriore incremento di 111.400 nel secondo anno, 89.600 nel terzo e di 71.500 nel quarto. Una crescita parallela alla effettiva occupazione, che nello stesso arco temporale passò dall’1,94 % al 3,12%.

Scolarizzazione della forza lavoro

La misura non dev’essere sottovalutata, nel contesto di scolarizzazione italiano del secondo dopoguerra. La trasformazione dell’economia italiana, infatti, poggiò ancora per molti anni a seguire su una forza lavoro, soprattutto nel processo di industrializzazione, che disponeva di un basso livello di formazione. I dati offerti nel report del 1969 sui livelli di istruzione della popolazione occupata nell’industria dimostrano come il percorso di formazione fosse ancora ai primi passi. A tredici anni dall’introduzione della riforma dell’apprendistato, il 78,3% dei dei lavoratori disponeva al massimo della licenza elementare. Il fenomeno persisteva ancora nel 1976, con una formazione professionale che continuava a mantenere dimensioni ridotte. In quegli anni il sistema formativo italiano soffriva di uno squilibrio profondo tra la componente umanistico-scientifica-tecnica e la componente professionalizzante. I centri di formazione professionale operanti in Italia erano infatti 1.643, suddivisi per 48,6% al nord, il 15,8% al centro e al 35,6% nell’Italia meridionale il 35,6%. La caratteristica dominante di questi centri fu inoltre l’indirizzo mono-settoriale, soprattutto in ambito industriale.

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Lorenzo Garbarino
Collaboratore
Giornalista. Laureato prima in Storia e poi in Scienze Storiche all’università di Torino. Oggi ancora studente alla scuola di giornalismo “Giorgio Bocca”.
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